
Martina Oppelli: l’ennesima vita fragile lasciata sola
Martina Oppelli, una donna segnata da oltre vent’anni di sclerosi multipla, è morta in Svizzera con il suicidio assistito.
Non perché non ci fossero alternative. Non perché non fosse lucida, viva, capace di emozionare, parlare, chiedere. Ma perché, come tante altre persone fragili, si è sentita sola. E quando una persona soffre da sola, spesso inascoltata, la morte sembra l’unica via d’uscita.
In Italia, la legge – sostenuta dalla Corte Costituzionale – non consente il suicidio assistito se non in precise condizioni: tra queste, l’essere sottoposti a trattamenti di sostegno vitale, ovvero strumenti che sostituiscono funzioni vitali, non semplici supporti quotidiani.
Martina non rientrava in questi parametri, come hanno confermato Asugi, il Tribunale di Trieste e i bioeticisti coinvolti. Ma lei ha scelto comunque la Svizzera. Perché nessuno ha saputo (o voluto) prendersi cura del suo dolore fino in fondo.
Chi oggi grida al “diritto di morire” dimentica che la vera emergenza è un’altra: nessuno deve essere lasciato nella solitudine della disperazione. Nessuno deve arrivare a dire “non ce la faccio più” perché manca una rete di assistenza, di relazioni, di supporto umano, spirituale e clinico.
Dall’altra parte, c’è la voce di Maria – anch’ella affetta da sclerosi multipla grave – che afferma con lucidità: “La gente non vuole morire. Le richieste di farla finita arrivano da chi è stato lasciato solo”.
Il suo messaggio è semplice ma rivoluzionario: la dignità non è nella morte, ma nella vita custodita, accompagnata, amata.
Dov’è oggi lo Stato? Dov’è la società? Dov’è la politica? Dove sono le strutture di cure palliative che possano realmente alleviare il dolore, la sofferenza fisica, ma anche e soprattutto quella esistenziale?
Non serve una legge che legittimi la morte. Serve una legge che rafforzi la vita!
Che garantisca a tutti l’accesso tempestivo e qualificato alle cure palliative domiciliari e residenziali, che investa nelle figure professionali della medicina del dolore, nell’assistenza psicologica, nel sostegno ai caregiver.
Chi invoca la “libertà di morire” spesso dimentica che la vera libertà nasce da una comunità che non ti lascia solo quando soffri. Che non ti accompagna alla morte, ma ti accompagna nella vita, fino alla fine.
Non si tratta di schierarsi politicamente. Si tratta di dire sì alla vita. Sempre! Di investire in tutto ciò che permette a ogni persona, in ogni condizione, di poter dire: “Io valgo. Io posso ancora vivere, con dignità, con senso, con amore”.
Non è il “diritto a morire” che dobbiamo introdurre. È il dovere di accompagnare e di curare, fino alla fine.