Sardegna: impugnata dal Governo la legge regionale sul suicidio assistito!
C’è un punto oltre il quale una società smette di proteggere i più fragili e comincia, lentamente ma inesorabilmente, a considerarli un peso.
Quel punto, oggi, lo stiamo superando.
Le leggi regionali sul suicidio assistito – presentate come “atti di civiltà” – stanno aprendo crepe profonde nel rispetto della vita e nel ruolo stesso della medicina.
In Sardegna, ad esempio, è stata approvata una legge che prevede “procedure e tempi” per accedere al suicidio medicalmente assistito.
Una legge che il Governo ha impugnato perché, come afferma la nota ufficiale, invade competenze statali in materia penale, civile e di livelli essenziali di assistenza, violando l’articolo 117 della Costituzione.
Eppure, nonostante le violazioni costituzionali contestate, qualcuno parla di “atto di grande civiltà”.
Ma civiltà non significa accelerare la morte: significa rimuovere le cause della sofferenza, non incoraggiare un’uscita rapida e definitiva.
Anche il dibattito nazionale procede nella stessa direzione: proposte di legge sul suicidio assistito vengono ripresentate periodicamente, poggiandosi sulla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, che ha ammesso la non punibilità dell’aiuto al suicidio in casi estremi.
Ma quella sentenza non autorizza lo Stato – né tantomeno le Regioni – a trasformare una situazione eccezionale in una pratica regolamentata e normalizzata.
In mezzo a tutto questo, però, c’è un dato che dovrebbe gridare più forte di qualsiasi ideologia: solo un malato su quattro riceve cure palliative, nonostante ne avrebbero bisogno circa 590.000 adulti.
In molte regioni – tra cui la Sardegna, ferma a un drammatico 4,3% di accesso – l’assistenza palliativa è praticamente assente.
E allora una domanda emerge con brutalità: com’è possibile parlare di “scelta libera” quando manca l’unica alternativa vera alla disperazione?
Proprio perché ci troviamo davanti a un bivio che segnerà per anni la nostra cultura e la nostra idea di dignità umana, è necessario reagire subito!
È per questo che ti chiediamo di fare un gesto concreto che può invertire questa rotta: se non l’hai ancora fatto, sottoscrivi subito la petizione “Fermiamo la cultura della morte! Difendiamo la Vita!”, promossa da Generazione Voglio Vivere.
È molto più di una firma: è un modo per dire che le persone fragili non devono essere accompagnate alla morte, ma accompagnate nella vita.
E c’è un’altra azione indispensabile: far sapere al maggior numero possibile di persone cosa sta accadendo.
Per questo vogliamo ampliare la nostra già vasta campagna di sensibilizzazione online. Ma per riuscirci, abbiamo urgente bisogno del tuo aiuto!
Le testimonianze dei palliativisti sono un pugno nello stomaco.
Il presidente SICP, Giampaolo Fortini, denuncia che il 68% dei pazienti arriva alle cure palliative solo quando mancano pochi giorni e che mancano metà dei medici necessari, oltre ai due terzi degli infermieri.
Danila Valenti, presidente del Comitato Etico della SICP, avverte che le cure palliative non abbandonano mai il paziente, e che la maggioranza dei malati “strapperebbe anche mezz’ora alla malattia”.
Le persone non vogliono morire: vogliono essere sollevate dal dolore, accompagnate, abbracciate, non lasciate sole davanti all’angoscia.
E mentre in Canada e Olanda si è arrivati al 6–7% delle morti tramite eutanasia o suicidio assistito, con medici costretti a tre procedure a settimana, c’è chi vorrebbe replicare qui lo stesso modello: lo stesso abisso travestito da libertà.
Noi dobbiamo avere il coraggio di dire NO!
No a una legislazione che considera la morte come soluzione. No a un sistema sanitario incapace di garantire ciò che conta davvero: cura, accompagnamento, dignità, vita.
Dobbiamo alzare la voce, oggi! Perché quando la cultura della morte si consolida, domani sarà troppo tardi per tornare indietro.
Difendere la vita non è solo un gesto di coraggio: è il minimo che dobbiamo a noi stessi, ai più fragili, e al futuro che vogliamo costruire.